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PROLOGO

Avrai pensieri che non potrai bandire -
visioni che mai più svaniranno -
che mai più da te saran disgiunte -
come le gocce di rugiada dall’erba.

Edgar Allan Poe, Spiriti dei morti - IV

1.
Nelle ultime ore della notte la luna calante aveva salutato l'arrivo di una brezza nordica. Uno spiffero gelido che colpiva la pelle infilandosi nelle pieghe dei vestiti, irrigidendo i muscoli, gelando le ossa. Faceva male, quel vento. Ma c'erano altri dolori, molto più pressanti, inevitabili, profondi.
Il ragazzo camminava veloce lungo il marciapiede nella luce piatta dei lampioni, seguendo le curve della strada. Procedeva con il busto leggermente piegato in avanti, curvo sulle ampie spalle, le mani rifugiate nelle tasche del giubbotto di pelle nera, il bavero alzato a riparare collo e mento dalle gelide carezze del vento mattutino. Portava una fascia di pail sulla fronte, calata fin quasi sugli occhi. Muoveva meccanicamente le lunghe gambe strette nei jeans lisi, spingendo avanti uno stivale dopo l'altro, stivali da motociclista, le suole a carrarmato oramai lisce.
Camminando, respirava faticosamente, costringendo l'aria ad uscire sibilando tra le labbra violacee, indurite e screpolate dal vento; ad entrare fredda e tagliente dalle narici in brevi intense inspirazioni, per riempire i polmoni in fiamme e cercare di arginare quel dolore atroce che lo assaliva ad ondate costanti. Partiva dallo stomaco, il dolore. Come una bestia nera annidata là dentro, indugiava ogni volta un intervallo di tempo diverso prima di affondare nuovamente i suoi denti, capace di sorprendere ogni volta il ragazzo con l'intensità' della scossa successiva. E d'improvviso esplodeva nel ventre, allargandosi in ondate concentriche che scuotevano dall'interno il ragazzo come le onde provocate da un sasso gettato in uno stagno, fino alle spalle, alle ginocchia, alle dita delle mani che s'irrigidivano vibrando, mentre la vista gli si appannava, le orecchie ronzavano e lui credeva (sperava?) ogni volta fosse l'ultima. Ma dopo un tempo indefinito di tregua (variava da un massimo di quattro minuti ad una manciata di secondi, lo aveva cronometrato, una volta), segnato da un formicolio delle estremità e da un'intensificazione delle percezioni, la bestia nello stomaco avrebbe fatto sentire di nuovo la sua voce. Le ondate sarebbero giunte di nuovo, inarrestabili, crudeli, ossessive.
Lottando contro quelle vampate che sembravano volergli fare esplodere il cuore fuori del giubbotto di pelle (e quante volte si era immaginato il rumore dei bottoni che saltavano via uno dopo l'altro come una mitragliata secca TAPTAPTAPTAP ed eccolo lì, finalmente, il suo cuore gonfio, malato e sporco che si contrae sull'asfalto come un pesce spinto nella sabbia dalla marea) il ragazzo continuava a mettere una gamba avanti all'altra, frenando il tremito dei muscoli, sibilando l'aria fuori dalle labbra tirate sui denti, costringendosi a respirare nonostante il peso oppressivo al petto. I margini dei guanti strusciavano contro le cerniere delle tasche, minacciando di scucirsi in vari punti, ma non aveva importanza, niente aveva importanza in quel momento, mentre i brividi dell'ultima ondata si rincorrevano verso le mani e i piedi, lasciandolo respirare nella sua tregua momentanea.
Una macchina sfrecciò rombando lungo il vialone, e per un attimo i fari illuminarono la figura alta e magra che camminava solitaria e veloce lungo il marciapiede. Una immagine nera, allungata, minacciosa; sovrastata da una chiazza tonda, piccola, bianca come un lenzuolo, capelli rossi agitati dal vento gelido, e quella luce strana nello sguardo, che sembra chiedere aiuto ma che, e non puoi dire di non averlo capito, nasconde un segreto atroce.
Il ragazzo si voltò nascondendo il viso alla luce, ma già la macchina passava oltre, alle sue spalle, strider di gomme dietro la curva, era sparita, inghiottita dalla notte oramai al termine, con la sua immagine stampata sui fari per sempre. Il ragazzo aveva girato la testa così bruscamente da essersi fatto male al collo. Rassettò la fascia di pail blu calcandola bene sulla fronte pallidissima, fino a coprire le sopracciglia folte e nere, lasciando ben poco da torturare al vento, che si dovette accontentare di scompigliare i capelli mossi, colorati di un rosso tanto scuro da poter sembrare nero, alla luce della luna.
Alla curva, il giovane gettò uno sguardo rapido a destra e a sinistra prima di attraversare la strada, ed uno più lungo ed intenso al cielo nero, rotto qui e là dal luccicare di poche stelle, abbastanza forti da superare la densa foschia che si allargava come un mantello oscuro tra il cielo nero e la terra grigia. C'erano dei fari, lontani sulla strada, ma per lui era molto più preoccupante quel vago chiarore che compariva come un alone indefinito a schiarire in un grigio sporco l'orizzonte irregolare disegnato dalle ciminiere della vecchia fonderia, oltre la ferrovia, verso est. Il sole sarebbe sorto entro poche ore. La notte era quasi finita, e lui era in ritardo. Respirando fitto tra i denti raggiunse il lato opposto della carreggiata mentre la macchina arrivava ringhiando diesel. I fari lo colsero alle spalle, mentre tagliava attraverso il parcheggio della stazione. Dovette girare attorno ad alcune macchine parcheggiate lì dal personale notturno. L'ondata di dolore era passata, e poteva concentrarsi sull'ambiente circostante, mentre la respirazione controllata lo calmava lentamente. Sapeva che la tregua non sarebbe durata a lungo. Doveva sbrigarsi a fare quello che occorreva. La fermata degli autobus era deserta, vicino alla porta dell'edificio due autisti in giacca blu stavano appoggiati ad un traliccio fumando sigarette sotto la luce violetta di un faro di segnalazione. Degnarono il ragazzo di uno sguardo annoiato mentre passava loro accanto e si infilava nella biglietteria della stazione, poi tornarono a discutere del freddo e del loro salario sindacale.
Dentro la stazione era più caldo, c'era odore di tabacco e quell'olezzo particolare di pelle stantia, un po' acido, che è l'odore caratteristico di tutte le stazioni ferroviarie del paese. Si appoggiò al corrimano di legno, davanti al bancone della biglietteria, sentendo la bestia nello stomaco che si risvegliava.
Aveva controllato i tabelloni la sera precedente. Sapeva dove doveva andare, e quanto costava. "Cornaredo, sola andata." Mormorò, la bocca tirata sulle labbra tese, facendo scivolare i soldi contati sotto il vetro, nella vaschetta di metallo. L'impiegato ritirò il danaro e si diede da fare stancamente con la stampante, sbirciando il vago ingrigire del cielo ad est fuori dalle vetrate. In un certo senso, siamo simili, pensò il ragazzo, lavoriamo di notte, dormiamo di giorno. Poi ritirò il biglietto dalla vaschetta e lo infilò nella tasca posteriore dei jeans.
Nella sala d'attesa deserta l'odore era ancora più intenso. Avrebbe voluto sedersi, ma sentiva arrivare le ondate di dolore, ed uscì al freddo per arginarne l'effetto. L'aria chiusa e viziata della sala d'attesa lo aveva nauseato. Il vento freddo spazzava la banchina impietosamente, spingendo tra le rotaie dei fogli di giornale in una disperata fuga. Il ragazzo percorse la banchina fino ai bagni. A volte c'era un barbone là dentro, a rifugiarsi dal vento. Il dolore lo investì come un maglio d'acciaio, facendogli quasi mancare il fiato. Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, non lì, ma era stata una pessima notte, ed il dolore stava diventando davvero insopportabile. Quando accadeva, lui non poteva più controllarsi, e l'ossessione diventava un imperativo. Controllò nei bagni, ma il barbone non c'era. Si spinse persino a fare qualche metro più in là, tra le rotaie, verso i vagoni abbandonati, dove croci di legno chiudevano ogni spiraglio, poi l'ondata diminuì d'intensità e la volontà del ragazzo riuscì a prevalere. Riprendendo parzialmente il controllo di sé, accelerò il ritmo della respirazione, rendendosi conto del rischio che aveva corso. Fidona restava soltanto pochi chilometri a nord, lungo quelle stesse rotaie, e tra i barboni le voci correvano in fretta. Inoltre poteva esserci della polizia lì intorno. Qualcuno poteva notarlo. Riprese il controllo di sé poco per volta, mentre l'ondata di dolore si spegneva lentamente nei suoi arti. Tornò sulla banchina ed infilò il sottopasso. Binario tre. Raggiunse una panchina e si sedette, mentre qualcosa si agitava nel suo ventre. Una sensazione come di calore, accompagnata dai brividi. Sapeva cosa voleva dire. Il momento peggiore era passato. Il dolore sarebbe tornato, ora, ad intervalli sempre più lunghi, fino a scomparire quasi del tutto. Avrebbe ricominciato a mordere a fondo dopo qualche ora, e sarebbe stato veramente un brutto momento da affrontare. Ma per allora il ragazzo sperava di essere già riuscito ad addormentarsi. Se tutto andava bene, entro un paio d'ore sarebbe stato a Santabarbara. La panchina era di ferro, dura e fredda anche attraverso i jeans. Si strinse nel giubbotto mentre il dolore saliva di nuovo.
Il vento portava la promessa del nuovo giorno. Osservò l'orizzonte irregolare di tralicci e ciminiere verso est: attraverso la foschia diffusa il chiarore grigiastro andava impercettibilmente aumentando, implacabile.

2.
Il diretto delle 04.25 arrivò in ritardo di venticinque minuti. Il ragazzo era molto nervoso, e stava già pensando di raggiungere i vagoni fermi lungo i binari arrugginiti, e cercare lì uno scomparto in cui trovare riparo, perché di certo non poteva starsene fermo ad aspettare il mattino. Ma il megafono aveva gracchiato l'annuncio, e lui non poteva perdere un'altra giornata in viaggio. Il rischio era alto, in una zona così vicina all'ultimo posto dove si era placato, senza un rifugio sicuro. Se solo Upir fosse stato ancora con lui...
Aspettò fino alle cinque meno dieci, gettando occhiate sempre più nervose, poi spaventate, verso est, finché il treno non arrivò sbuffando e stantuffando. Salì ed ebbe una brutta sorpresa. I vagoni erano quasi tutti occupati. Gli altri treni che aveva preso nel viaggio, tutti notturni, erano solitamente vuoti, e gli permettevano di trovare uno scomparto libero, in cui chiudersi al buio a riposare. Ma stavolta non era stato fortunato.
Percorse il treno in tutta la sua lunghezza, ma non trovò neppure uno scomparto totalmente libero. Restavano soltanto i vagoni della prima classe, ma non aveva i soldi per pagare la differenza, e non avrebbe comunque potuto fornire documenti per un'eventuale contravvenzione. Non erano rischi che poteva permettersi di correre, quelli. Tornò alla testa del treno, dove aveva notato uno scomparto con le tendine tirate. Lo occupavano due passeggeri, un ragazzino ed un adulto. L'adulto dormiva russando piano. Entrò e sedette al buio, vicino al finestrino. Si era chiuso la porta alle spalle, le tendine erano ben abbassate, ma lui controllò ugualmente e le sistemò in modo che neppure sottile una lama di luce potesse penetrare dal suo lato. Non appena la situazione sembrò sistemata, la belva mostrò i denti di nuovo. Dentro di lui sentì il dolore che tornava ad aggredirlo nelle sue cicliche ondate. Il ragazzino stava seduto al suo fianco: sonnecchiava. Il suo piccolo cuore batteva ritmicamente, pieno di vita. Il ragazzo sentiva l'odore del suo sangue, giovane e fresco. Bloccò i propri sensi, chiuse gli occhi e regolarizzò il respiro, rilassandosi, per controllare il dolore. Si sforzò di non guardare l'orologio. Entro un'ora sarebbe giunto a Cornaredo. Poteva farcela.
Doveva farcela.
In qualche modo si assopì.

3.
Correva, nudo, per le strade grigie e sporche della città. Sapeva che lo stavano cercando, che lo avrebbero preso prima o poi. Il rumore dei suoi passi rimbombava contro i muri, dalle finestre qualcuno stava guardando, mentre correva tra gli alberi, girando attorno ai tronchi, fino a sbattere con violenza contro il treno, e cadere per terra, in ritardo. E da terra vedere il mattino arrivare, e quel sacco oscuro. Cos'è quell'involto che incombe? Cosa quella macchia scura che si allarga sotto di esso? Allunga la mano verso la stoffa scura, grezza (scucita, per via delle cerniere) mentre la voce dice...
“Biglietti, prego.”
E la luce, accecante, urta gli occhi con violenza, mentre la nausea arriva dallo stomaco. Il ragazzo si sveglia, e sa che in pochi secondi anche lo stomaco si sveglierà, e il demone che vi dorme tornerà a mordere. Il controllore è un ometto sulla cinquantina, segaligno, stanco. Puzza di sigaro. Sembra provare un gusto vendicativo nello svegliare i passeggeri che dormono al calduccio, comodamente seduti nei loro scompartimenti mentre lui deve andare su e giù e non può chiudere occhio che per una mezz'oretta. E adesso li osserva dall'alto, gli occhi socchiusi all'ombra della visiera grigia.
Nella testa del ragazzo forze contrastanti. Prendilo. Si muove velocemente, tira fuori il biglietto e l'allunga al controllore, che lo guarda, lo timbra, glielo restituisce. Negli occhi del ragazzo c'è ora il sangue del controllore, nelle sue orecchie, ossessionante, cresce il battito del cuore dell'uomo. Prendilo, ora! Gli altri passeggeri si muovono lenti, impacciati dal brusco risveglio. Il ragazzo si dimena a disagio sul sedile, gira lo sguardo verso la finestra chiusa dalle tende di plastica rigida. Nelle sue orecchie rimbomba il battito cardiaco del controllore. Sotto il margine delle tendine filtra una luce azzurrata. Proviene luce anche dal corridoio, dietro il controllore. La sente pizzicare sulla pelle esposta all'aria, ma non vuole girarsi per sincerarsene. Guarda l'ora, mentre le mani tremano: le cinque e venti. Si costringe a guardare ancora verso la finestra. Sente che il sole non è ancora sorto, ma poco ci manca. Per fortuna la foschia sembra resistere. E' per la foschia che ama questa zona. Rende tutto più sicuro. In quel momento il dolore ritorna, a mordere nel suo ventre. L'uomo seduto di fronte a lui cerca il biglietto nella tasca della giacca, nell'impermeabile appeso al gancio. Non lo trova. Un tremito di rabbia e dolore muove appena la mascella del ragazzo, nessuno se ne accorge. Finalmente l'uomo trova il suo biglietto, il controllore finisce il suo lavoro e se ne va, spegnendo la luce e chiudendosi la porta alle spalle. L'oscurità torna ad ammantare le figure sedute nell'abitacolo.
Il dolore lo investe troppo forte per resistergli, e per un attimo perde il controllo: si volta di scatto, la bocca gli si apre da sola mostrando alle tenebre dei canini troppo lunghi per restare chiusi nella sua bocca. Sta guardando fisso il collo dell'uomo. Una vena pulsa, invitante. Un rumore nel corridoio lo riporta alla realtà. Affonda le unghie delle dita nella tela dei jeans, fino a farsi male. Chiude gli occhi, ricomincia i suoi esercizi di respirazione, cercando lentamente l'autocontrollo. Se cedesse sarebbe un disastro. Ora poi, così vicino alla sua meta. Lentamente recupera il controllo di sé, mentre l'ondata di dolore si acquieta lentamente. Ma non riesce più ad assopirsi. Il treno fa una fermata. Passi nel corridoio, qualcuno apre e chiude le porte scorrevoli dello scomparto. Il ragazzo tiene stolidamente la testa voltata verso la finestra, gli occhi serrati. Il dolore che è parte di lui mormora come un motore al minimo, pulsante, sordo. Lo controlla bene per ora, ma sa che non durerà a lungo. Quando il treno riparte, ed i rumori nel corridoio sono cessati, il ragazzo si alza, esce dallo scomparto, barcolla verso il bagno. Nel corridoio non c'è nessuno. Fuori dai finestrini la luce azzurra del sole filtra attraverso densi strati di nebbia. Non è difficile da sopportare. Tralicci fantasma compaiono e svaniscono nel mondo di nebbie. Il bagno è piccolo e quadrato. Pareti di plastica e puzza di orina. Entra e si chiude la porta alle spalle. Si sciacqua la faccia, il collo. L'acqua è fredda, rugginosa, ma blocca la nausea, rallenta il dolore. Toglie la fascia dalla testa, inzuppa un fazzoletto di carta e se lo passa sulla fronte, sulla nuca, sugli occhi. Infine sciacqua i capelli e indossa di nuovo la fascia termica. Il contatto delle sue dita sulla fronte. Come la prima volta, un anno o forse un millennio prima, la sensazione lo sciocca. Pelle fredda contro pelle fredda. Non ci si abituerà mai. Come quelle volte in cui ci si sveglia con un braccio od una gamba addormentate, insensibili, morte. Definizione adatta. Sorride lugubre a sé stesso, nello specchio rotto, ma non riesce a vedersi gli occhi. Sono nascosti in due pozze d'ebano nero.
Succede mentre torna verso lo scompartimento. Nel corridoio c'è una ragazza appoggiata al finestrino, che fuma. La vede troppo tardi, e non può tornare indietro. Fissa le paratie degli scomparti mentre si avvicina a lei, ma ne sente già l'odore, intenso, quasi aspro. Lei si gira mentre lui si avvicina, il battito del suo cuore pieno di vita esplode nelle orecchie del ragazzo, mentre il suo stomaco sembra rinchiudersi in un grappolo. Gli occhi girano e trovano un giubbotto aperto, una felpa scollata, pelle chiara, rosata. Deve lottare per continuare a camminare. Lei si sposta per lasciarlo passare, il collo fuori dalla sua visuale. Con una spinta disperata la supera, sforzandosi di non guardarla mentre le è così pericolosamente vicino, ma non può evitare di sentire il battito ritmico ed irregolare del suo cuore, l'armonia delle sue arterie, il profumo aspro del suo sangue. Attraversa quel corridoio che sembra non finire mai, quasi di corsa, senza voltarsi, trova il suo scompartimento buio e vi si getta chiudendo la porta alle spalle. Si siede, e riprende a respirare ritmicamente, mentre il battito del cuore della ragazza va affievolendosi nella sua testa, sostituito dal dolore, che avanza ad onde ritmiche, scandite. Danza un ritmo preciso, ossessionante, categorico. Il ritmo di quel piccolo cuore pieno di vita, e di sangue dall'odore metallico e dal sapore caldo e dolciastro.
Seduto nel buio, il ragazzo stringeva le mascelle, mentre fuori dal finestrino, dietro le tendine di plastica rigida, la luce azzurrognola aumentava di intensità. Con il passare del tempo il dolore si faceva sentire in modo sempre diverso, variando, ora più sordo e lento come il pulsare del cuore dell'uomo addormentato vicino al finestrino, ora più veloce e intransigente come quello del ragazzino al suo fianco. Nulla di paragonabile all'effetto che gli avrebbe fatto quello di una donna, o di una ragazza, come quella nel corridoio. Respirando a metodo, riesce a ridurlo un pulsare sopportabile, chiude gli occhi, si rilassa come può e attende. Sa che non ci vorrà ancora molto.

4.
“Cornaredo, stazione di Cornaredo” annunciò l’altoparlante appollaiato nell’incrocio dei pali metallici di sostegno delle tettoie della stazione. I pali erano di un grigio cupo, quasi blu. Il ragazzo era già in attesa presso lo sportello del vagone. Aprì e scese dal predellino di metallo. La stazione era già vitale. Gruppi di persone correvano verso i treni, nella biglietteria, al bar. Il cemento era grigio come il cielo, ma dietro la coltre di foschia si indovinava la presenza del sole in agguato, che acquistava potenza ogni minuto, crescendo, minacciando di esplodere dissipando le nebbie nel nulla di lì a poco. Il ragazzo ebbe appena il tempo di vedere la stazione attorno a sé. Quel bar, quell’edicola.. Immagini sfocate dalla preistoria dei suoi ricordi. Immagini di scorribande di ragazzi di periferia, una sensazione di rischio, di illegalità. Si infilò nel sottopasso, verso la metropolitana, tra la gente, mentre il rimbombo dei loro cuori lo aggrediva, cancellando i ricordi. Monete contate per la macchinetta dei biglietti, rubate dalle tasche di un barbone da quello che sembra un secolo, ed è in realtà poco più di un paio di giorni.
La testa ronzante, il ragazzo si mise in coda, e strinse i denti mentre quel pulsare nelle tempie si stabilizzava, cresceva, tornava a stabilizzarsi. Finalmente timbrò, e corse, fuggì, verso le scale a destra. Tutte le altre persone erano andate nella direzione opposta. Scese le scale barcollando, si appoggiò alla ringhiera un attimo per respirare, poi raggiunse la banchina. Su quella antistante almeno una ventina di persone. Era la banchina per il treno che andava verso il centro città. Quindici metri e le corsie ad alta tensione a salvarlo. Sulla sua banchina, una sola presenza: un barbone, accasciato sulla panca di pietra scura. La tentazione era forte, nonostante il ritmo del sangue dell’uomo fosse stanco, malato. Se il dolore cresceva troppo poteva non riuscire a controllarsi, lo sapeva bene. Se solo fosse giunto prima il treno per il centro, se avesse impedito a quelle persone di vedere... Arrivò il treno per la periferia, e l’uomo salì arrancando su un vagone mezzo pieno. Il ragazzo ne trovò più avanti uno con sole tre persone a bordo. Salì e si sedette in un angolo, mentre la metro ripartiva. Tre persone. Uno era un nero, sui cinquanta. Giacca, cravatta e ventiquattrore nera. Gli altri due degli operai, sulla trentina. Sotto i loro sguardi ostili lasciò cadere all’indietro la testa, fino ad appoggiarla al vetro umido. tre persone, a pochi metri da lui. Tre ritmi diversi. Era brutto, ma infinitamente meglio che dieci, cento, mille ritmi ossessionanti, assordanti. ‘Le città non sono un buon territorio per noi’ disse la voce di Upir nella sua testa. Sembrava così ovvio, così naturale, adesso. Come ogni cosa che si scopre sulla propria pelle, sembra così incredibilmente palese, dopo. Il sordo pulsare della metropolitana sulle rotaie lo distraeva, aiutandolo a sopportare il dolore. Prima il nero, alla fermata per l’aeroporto, poi i due muratori, alla penultima fermata, lo avevano lasciato solo, padrone del vagone. Aveva potuto rilassarsi per qualche minuto, prima del capolinea. Si lasciò trasportare da due rampe di scale mobili, approfittando della solitudine per riprendere completamente il controllo, ma non riuscì a placare il dolore in modo soddisfacente. A questo punto doveva per forza trovare un rifugio e addormentarsi. aveva già un’idea, ma ci sarebbe voluta ancora una mezz’oretta, se tutto andava bene. E c’era il rischio del sole, in agguato dietro alla nebbia. Poteva farcela. Ce la avrebbe fatta. Non era sopravvissuto a tutto questo per finirla qui, ad un passo dalla sua meta. Salì l’ultima rampa di scale, dopo aver indossato i grandi occhiali da sole. Aveva pitturato con un pennarello le lenti, li aveva chiusi di lato con degli scampoli di pelle tagliata via dalla fodera del giubbotto. Uscì nel livido chiarore di una mattina grigia di foschia. Quella era la parte più pericolosa. Avventurarsi in giro a quell’ora poteva significare finire nei guai. Bastava una schiarita a creargli problemi seri. Poteva ridurlo all’impotenza, magari farlo finire all’ospedale. E ospedale significava documenti, carabinieri, o la polizia. Guai seri, per lui. Eppure stava filando tutto liscio. La foschia stava fermando i raggi del sole invernale, l’umidità conservava l’atmosfera della notte in uno strascico innaturale. Mosse a passo deciso verso la stazione degli autobus in uscita, deserta a quell’ora, la raggiunse, si mise a leggere gli orari dei pullman per Santabarbara. Ce ne sarebbe stato uno entro pochi minuti, ma il molo era stato spostato al n° 6. La nebbia calava rapidamente, quasi per un segnale nascosto. Il ragazzo cercava il molo sei. Lo trovò.
Ce l’aveva fatta, ci era riuscito. La nebbia, lo sapeva, sarebbe stata anche più fitta verso Santabarbara. Ma cos’era quel dolore improvviso, quel pulsare crescente che dallo stomaco si fiondava nelle tempie, facendolo vibrare tutto intero? Quel ritmo, nuovo, un po’ affannato, ma così assurdamente VIVO, sempre più vicino, nella nebbia. Il dolore divenne un imperativo, una necessità. La necessità di ciò che mancava al ragazzo. La belva spalancò le fauci e azzannò il suo stomaco, ruggì di fame incontenibile. La sua Fame. Sorpassò la sua volontà, la sua razionalità, la sua prudenza, la consapevolezza del rischio eccessivo. Cadde ogni freno, pazzo lui che credeva di potersi controllare. Si gettò a caccia della preda, ne trovò il ritmo, ne individuò l’odore e lo seguì fino alla fonte.

5.

Il pericolo della felicità. -
“Ora tutto torna ad andare per il meglio, amo oramai ogni destino: -
chi vuol essere il mio destino?”

Friedrich Wilhelm Nietzsche, 103, Aforismi

Romeo Dapporto aveva compiuto 43 anni soltanto da un paio di giorni, ed era decisamente in ritardo per l’ufficio, avendo perso l’autobus delle sei e cinque. Si fermò a guardare la tabella degli orari sfregandosi le mani una contro l’altra per scaldarsi le dita intorpidite dal freddo. I sottili guanti di lana che portava non erano abbastanza caldi, per quell’autunno. Ma li avrebbe messi ugualmente. Dopotutto erano il regalo dei suoi due figli. Glieli avevano incartati nella stagnola blu e argento riciclata dai pacchi di natale, ed avevano abbellito il pacchetto con un nastro rosso, molto vistoso. Anche se il pacchetto era più buffo che bello, era stato uno splendido regalo. Erano rimasti lì ad aspettare mentre lo scartava. Luisa, la piccina, muoveva la testa per sbirciare l’espressione del padre. “Non avrai più freddo con questi, papà!” aveva esclamato con la sua vocina squillante, quando l’uomo li aveva indossati. Allora lui l’aveva presa in braccio per darle un bacione, mentre a Francesco, che si considerava già un ometto a nove anni e mezzo, aveva stretto solennemente la mano, ringraziandolo. Sua moglie Ilaria era rimasta a guardare i suoi figli e l’uomo che amava, pensando tra sé che non l’aveva mai visto così felice in tredici anni di matrimonio, neppure il giorno che gli aveva detto di essere finalmente rimasta incinta, quando i dottori avevano tutti quei dubbi. E nemmeno il giorno in cui era nata Luisa, che pure era stato uno dei più felici della loro vita. No, quello li batteva tutti. “Buon compleanno, Romeo.” gli aveva detto, dandogli il suo regalo, quando la cerimonia di ringraziamento con i figli aveva avuto termine. Il regalo era in tema con quello dei ragazzi: una sciarpa beige, di cachemire. Per la prima volta comperata senza cercare il cartello ‘saldi’. Era iniziata da poco la Nuova Era, per la famiglia Dapporto. Con il nuovo lavoro della donna e con l’avanzamento d’incarico dell’uomo la famiglia si era assicurata finalmente la tranquillità economica, e una prospettiva più serena per il futuro dei due figli. Quella mattina Romeo aveva lasciato la sciarpa nuova sullo schienale della sua scrivania, accanto alle cartellette blu e gialle con i dettagli per il suo nuovo incarico. Accidenti però a quelle nuove disposizioni sull’uso degli autoveicoli. Non aveva ancora abbastanza soldi da permettersi una macchina nuova, e nell’usato di marmitte catalitiche non se ne parlava, se si voleva risparmiare. Così già da due giorni doveva mettersi in cammino così presto, nella nebbia, prendendo pullman vuoti. Ma sarebbe stato ancora per poco. Questione di giorni. Era così assorto nei suoi pensieri che non si accorse subito della figura magra e scura che avanzava nella nebbia, verso di lui. Guardò l’ora, un po’ teso. Le sei e dodici. Era effettivamente un bel ritardo matematico. Per lui, di solito estremamente puntuale, una rarità. Ma, come aveva detto Ilaria la sera prima, gettando le mutandine di pizzo sul tappetino ai piedi del letto: ‘..E chi se ne frega?’
Finché non gli fu abbastanza vicino. Troppo vicino. Allora si girò verso di lui, più sorpreso che allarmato, e lo vide avanzare come un’ombra nera, tutto pelle e cerniere, mentre puntava diritto su di lui, bruciando i pochi metri che ancora li separavano, tagliando il marciapiede in diagonale, gli occhi fissi nei suoi, ed il fuoco che ardeva in fondo a quegli occhi. Tentò di dire qualcosa che avrebbe voluto essere un “Ti prego..” ma suonò soltanto come un lamento inarticolato, mentre sollevava la valigetta per proteggersi, erigendo tra lui e l’incubo che avanzava il suo lavoro, Luisa, Francesco, Ilaria, quarantatré anni e non ora, NON... Un sibilo di aria lacerata, l’urto secco e la valigetta finì in mezzo alla strada. E lui da terra, alzò gli occhi un attimo solo, guardando l’incubo sopra di sé.
Poi il ragazzo gli piombò addosso.
A bocca spalancata.

6.
Mentre il pullman partiva rombando diesel e sbuffando nel chiuder di porte il ragazzo finiva di ripulirsi il mento. Aveva usato un fazzoletto dell’uomo per pulirsi, e se ne era liberato assieme al corpo. Ora stava usando la manica della giacca. Aveva visto una macchia scura sul mento riflessa nei vetri. L’autista si sarebbe sicuramente ricordato di lui. Non c’era nessun altro sul pullman. Probabilmente a quell’ora non c’era mai nessuno. Sfregandosi con la manica, la cerniera graffiò la guancia del ragazzo. Non se ne accorse neppure. Era ‘pieno’. Aveva sentito usare tante volte quel termine per indicare un drogato sotto effetto di stupefacenti. Era un paragone molto azzeccato, a suo parere. Aveva le sue crisi d’astinenza, in qualche modo poteva forse persino morirne. Come loro, era fuorilegge. Ma c’erano alcune differenze. Il tipo di sostanza da cui dipendeva, ad esempio. E il modo di procurarsela.
Aveva trascinato il corpo fino all’argine della roggia dietro la stazione della metropolitana e ce l’aveva gettato, dopo averlo appesantito con dei mattoni lasciati lì da qualche ditta di lavori pubblici. Non aveva neppure sentito la fatica, era così carico di energie da potersi reputare invincibile, instancabile. E se non lo era, era comunque qualcosa di molto simile. Aveva dovuto sistemare bene le cose, ed era sicuro di avere fatto tutto nel modo migliore possibile. Non lo avrebbero trovato, almeno non in poco tempo. Il suo cervello lavorava a mille, come il suo corpo. Sentiva i muscoli pulsare di vita, di energia. Ora, i battiti del cuore che era stato di Romeo Dapporto erano i suoi battiti. Si guardò le mani. Sapeva che avrebbe potuto modificarle, se solo avesse voluto. Guardò le unghie crescere lentamente, le dita farsi più robuste, curve, simili ad un artiglio. L’autista poteva vederlo nello specchietto. Sapeva che non lo stava guardando, ma sentiva che poteva farlo da un momento all’altro. Era curioso, l’autista. Era curioso, di quel teppista seduto in fondo, dall’aria strana. Questo pensava. Dall’aria strana. Non l’aveva guardato molto bene alla fermata e neppure quando aveva fatto il biglietto. Il ragazzo poteva leggerglielo dentro come fosse stato un tabellone pubblicitario illuminato a giorno.
Era stato fortunato, fino a quel momento. Meglio non rischiare di più. La mano tornò normale, il ragazzo si lisciò le maniche e cercò di sistemarsi in maniera comoda sul sedile. La foschia si era ispessita, come si aspettava. I dubbi e le paure di pochi minuti prima erano lontani, adesso. Attraverso i vetri, Il ragazzo vide apparire degli edifici noti. Le cascine, le villette del lato sud, i magazzini. Il paese era Castelbosco Lacustre. Scese alla fermata, aspettò che il pullman fosse sparito dietro la curva e girò attorno all’edificio della posta, prese una traversa e tagliò per i campi, nella nebbia, inebriandosi degli odori della terra umida, gravida di promesse future. Sapeva dove stava andando, tutto era come se l’aspettava.
Era tornato a casa.

© Stefano Re 1993-2004