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Tales

NEL CESTO
Gennaio 2005

Vi racconto un sogno che ho fatto alcuni anni fa. Parecchi a dire il vero, parliamo degli anni '80. E' un secolo che lo ricordo e racconto, ma non lo avevo ancora mai scritto (se non in chat). Gli ho dato un titolo provvisorio:


*** Nel Cesto ***

Sulla barella Sono un detenuto. Passo la mia giornata con altri detenuti, noiosa e ripetitiva. Ma ho almeno due segreti. Il primo è che in realtà sono un poliziotto, infiltrato nel carcere per stringere amicizia con un altro detenuto e raccogliere, tramite lui, informazioni su una serie di omicidi. L'altro segreto è che io e il detenuto in questione stiamo per tentare la fuga. La più classica delle faccende. Il topos della fuga: dal vagone della biancheria sporca ad un tubo di cemento, verso la libertà. Ma qualcosa va storto. Ci scoprono e una guardia ci spara dietro. La mia solita sfiga, mi becca, e anche gravemente, penso. Come che sia, sanguino, fa un male boia, il mio compagno di fuga mi trascina fuori, svengo, dissolvenza.

Mi risveglio piuttosto annebbiato. Se c'era del dolore, ora è sopito. Se avevo dei segreti, non me li ricordo più, perchè ho perso la memoria. Quel che so è che sono rannicchiato in posizione fetale, completamente nudo, all'interno di un grosso cesto di vimini imbottito di bambagia. Intorno vedo pareti piastrellate, qualcuna sbrecciata, tubi a vista, mobilia in ferro e vetro. Un laboratorio medico forse, piuttosto male in arnese. Ma per me non conta molto tutto questo. La bambagia è intorno al mio corpo, ma anche nella mia mente. Scivolo nel nulla.

Voci. Un uomo e una donna. Non capisco cosa dicono. Apro gli occhi, ancora tutto annebbiato. Nella stanza ci sono due persone in camice bianco. Il dottore ha i capelli bianchi, a ciuffi ribelli, stile Einstein. Occhiali spessi dalla montatura pesante. Occhi che guizzano ovunque, gesticola mentre parla, ma le parole mi arrivano confuse, un borbottio anonimo. La donna ha i capelli biondi, sciolti sul camice. Mi volge le spalle, la curiosità di vederle il volto mi pungola. Ma il sonno rimonta. Lei non si volta, il borbottio è soporifero. Dissolvenza.

Risveglio. Il laboratorio è vuoto. C'è una barella di ferro al centro della sala. Dal basso posso vedere che c'è qualcosa sulla barella. E' coperto da un lenzuolo. Ne vedo solo un lembo, è macchiato di sangue. Non succede nulla, non ho forza per muovermi, non ne ho nemmeno voglia. Scivolo nel sonno.

Mi sveglio. La donna è in piedi presso il mio cesto. Il volto è di una bellezza fredda, solenne, poco espressiva. Gli occhi azzurri sembrano guardarmi attraverso. Il camice bianco è aperto e scollato sul davanti. Le vedo il solco tra i seni, non porta reggiseno. Le gambe ne escono nude. Sembra non portare nulla, sotto il camice. Non mi parla, ma mi tocca con strumenti medici, di ferro, freddi. Sembra soddisfatta, mi pratica una iniezione. Brucia. Mi addormento guardando la sua bocca. Le labbra carnose tirate senza espressione.

Mi sveglio. Il dottore sta urlando. Sembra essere furioso con la donna. La chiama Anna. Ora so il suo nome. Non capisco quello che il dottore le grida, ma penso sia geloso per qualche motivo. Anna risponde con brevi frasi soffocate, quasi inaudibili. Il tono è piatto, sobrio. Non pare per nulla impressionata dalla sfuriata. Il dottore si placa, si infila in una porta. Anna mi si avvicina, mi trapassa con il suo sguardo indifferente, afferra la barella di ferro e la spinge. Cigolando, sparisce nella stessa porta del dottore. E sono solo.

Mi sveglio. Anna mi cura. Mi fa le iniezioni. Bruciano. Non sorride, non parla, non mi guarda mai davvero. Eppure c'è. Una volta la tocco, le sfioro il polso con le mie dita. Mi regala uno sguardo glaciale, ma soddisfatto. So che le do piacere, non so in che modo. Mi raggomitolo nella bambagia. Mi vuole lì. Sono felice di soddisfarla. Sa che ho paura delle iniezioni. Sa che mi fanno male. A volte, quando mi punge io gemo. E' una di queste volte che lei sorride. Un sorriso freddo, ovviamente. Ma mi riempie, brucia più forte dell'iniezione. La guardo con gratitudine, e lei ricambia lo sguardo, soddisfatta.

Il dottore urla spesso. E' geloso di me, ora ne sono certo. Penso che sia perchè sono giovane. Perchè Anna passa molto tempo presso al cesto, a curarmi e a farmi male. Una volta si è fermata in piedi ed è rimasta immobile troneggiando sul cesto e su di me. Trafitto dai suoi occhi glaciali, rannicchiato in posizione fetale la ho adorata. Ero il suo porcellino d'india. Io sono felice. Non ricordo chi sono, non ricordo che cosa dovrei fare e non me ne importa nulla. Sono felice. L'unica cosa che mi inquieta è la barella di ferro. Il lenzuolo che la ricopre è sempre macchiato di sangue.

Anna non porta nulla sotto il camice. ora lo so, perchè lo ha tolto. E' entrata e si è fermata davanti al cesto. Poi ha fatto scivolare il camice giù dalle spalle, a terra. Mi ha regalato la sua nudità, senza una espressione. Poi è scesa a tormentarmi con le sue cure dolorose. Mi fa sempre male, quando può. Ma lo fa senza rabbia, con clinica precisione. Come una cosa necessaria, indipendente dalla sua volontà. Ma sappiamo entrambi che lo fa perché ne gode. La adoro per questo. E lei si beve questa adorazione con regale indifferenza.

Anna mi cura e mi tortura sempre nuda, quando non c'è il dottore. Quando si spoglia, a volte il suo corpo è macchiato di sangue, e questo mi spaventa. Dopo avermi fatto male spesso si sdraia nel cesto, con me. Mi addormento con il calore del suo corpo sul mio pieno di desiderio, dolorante e appagato. Al risveglio, lei non è mai con me. Dopo alcuni giorni, capisco perché. Lei dorme sulla barella. Aspetta che io stia dormendo poi scivola fuori del cesto. Ho finto, rallentando il respiro. La ho osservata nella luce azzurra che filtra dalla finestra serrata. Si alza e scosta appena il lenzuolo, poi si sdraia sulla barella di ferro, diventando ombra nera nel nero. Ma al mattino, quando mi sveglio, non c'è più. La nebbia si sta diradando nella mia mente. Mi sento ogni giorno più forte e lucido, e anche questo mi spaventa. Potrei cercare di alzarmi se volessi. Ma non voglio. Non voglio sfuggire ad Anna.

Mi sveglio. Anna è sdraiata su di me, nuda. Non è mai successo prima. Non la ho mai potuta osservare così. E' indifesa, improvvisamente raggiungibile. Mi spaventa. Sorride, nel sonno, e ammicca. Ora la amo, e tutto si frammenta irrimediabilmente: non mi ha fatto iniezioni ieri sera. Tutto è chiaro oggi, niente nebbia nei miei occhi: ricordo improvvisamente ogni cosa. Sono un poliziotto. Sono evaso cercando informazioni su degli omicidi. Se sono finito qui mi ci ha portato il mio compagno di fuga. Sono stato sedato fino alla sera prima. E sono in pericolo. In quel momento entra il dottore. Ci scopre, urla. Dà fuori di matto. Anna si sveglia, si alza, cerca di calmarlo. Ma è nuda, è tesa, la sua voce stenta. Ha perso il suo potere. Cerco di muovermi, ma se la mente è chiara e risponde, il corpo rimane nella bambagia. Vuole le iniezioni, vuole dormire. Ma il dottore è scatenato. Urla, e mentre urla inizia a pisciare in giro, contro le pareti e la mobilia. Anna si riveste nervosamente, valutando l'entità della crisi. Io mi sto sforzando di recuperare il mio corpo, che ancora non risponde. Il dottore ora è vicino alla barella di ferro. Gesticola furiosamente, scaraventa via il lenzuolo macchiato di sangue, che si accuccia in un angolo come un pipistrello morto. Poi entra nella stanza dietro la porta, dove attiva un quadro pieno di strani indicatori. Anna sembra terrorizzata ora, qualcosa si muove sulla barella. Con un tonfo sordo dal bordo di ferro spunta una mano. O una zampa. Ha tre grosse dita che terminano in altrettanti artigli adunchi, e non ha pelle. Solo carne e tessuti umidi e sanguinanti.

Rotolo fuori dal cesto in qualche modo, mi punto sulle ginocchia e spingo contro la parete per alzarmi. Sulla barella c'è un corpo. A parte gli artigli, il resto sembra umano. Senza pelle, però. E ora spasmi scuotono quei muscoli. Gli artigli si chiudono, si riaprono, liquidi corrono nelle venature a vista, i tessuti si irrorano, pulsano. Mi rendo conto in quell'istante che ogni notte, dopo aver lasciato me nel cesto, Anna dormiva sulla barella, sdraiata su quel coso. Penso anche che quegli omicidi su cui dovevo indagare li ha commessi quel mostro. E che il dottore in qualche modo lo controlla, mentre Anna controllava il dottore dormendo con il mostro. L'idea del suo corpo nudo sui tessuti pulsanti del mostro mi affascina, ma non abbastanza da restare lì a vedere il seguito. Superando gli spasmi mi sollevo, zoppico verso la finestra, apro la serranda metallica con fragore. Il mostro si scuote, i tratti del suo volto sembrano coperti da una membrana irrorata di sangue, ma qualcosa si muove dove dovrebbe avere gli occhi, la bocca si apre in un urlo muto.

Il laboratorio è al piano terra. Rotolo fuori della finestra, sul selciato. Corro via zoppicando a scatti, nudo, penosamente conscio della mia vulnerabilità. Mi accorgo di perdere sangue, non so da dove, non ho voce per chiedere aiuto. C'è il sole del pomeriggio, siepi, vialetti di cemento. E sento, so, che il mostro mi sarà presto dietro. Ho paura.

*** ***

E qui, pensate un po', mi sono svegliato. Romanzeschi avverbi a parte, il sogno è veramente questo. Prima o poi ne farò un racconto (così come l'ho descritto rende l'atmosfera, narrativamente ha troppi buchi). C'è anche un quadro che ho fatto, con Anna che spinge la barella di ferro. Anna ha i capelli rossi nel quadro, omaggio ad una mia amica. ma nel sogno era bionda platino. Le sensazioni, le interpretazioni, le ipotesi e le immagini sono rese al meglio di quanto ricordavo, anche se come tutti avrete provato è praticamente impossibile rendere appieno le esperienze oniriche. Io amo i sogni.

E, sì: ne faccio spesso.


Stefano Re © 2005